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5 febbraio 2015

SEGNALAZIONE - Papà era un bandito di Maria Chiara Perri

Papà era un bandito è la storia di una famiglia atipica con precedenti criminali raccontata dal punto di vista di Michan, un bambino di quattro anni accudito dal padre diciannovenne. Senza moralismi e con un pizzico di ironia vengono trattate tematiche delicate come quelle della devianza giovanile e degli effetti della reclusione in carcere sui detenuti e sui loro famigliari. I De Vita, protagonisti del romanzo, commettono tanti errori ma sono uniti da un forte legame di affetto e solidarietà reciproca in un contesto economico e sociale difficile. Il libro propone una riflessione ai ragazzi che hanno vissuto esperienze di devianza e può avvicinare i lettori alla conoscenza di esperienze, come quelle del carcere e del disagio giovanile, vicine ma troppo spesso nascoste.

TITOLO: Papà era un bandito
AUTORE: Maria Chiara Perri
EDITORE: Nativi Digitali Edizioni (5/2/2015)
GENERE: Narrativa
PREZZO: eBook 2,99 €
PAGINE:

TRAMA
Jude ha diciannove anni, origini irlandesi, cappuccio della felpa calato sulla fronte. Se ne va in giro con la sua bici, All Star viola ai piedi e zaino in spalla. Lo accompagna Michan, un bimbo color latte macchiato con una testa piena di riccioli. Sono papà e figlio. La loro è una famiglia sull’orlo di una crisi di nervi, con un nonno irascibile che nasconde un passato e uno zio metallaro alle prese con paturnie adolescenziali. Basta una bravata di Jude per sconvolgerne i già precari equilibri. Tra streghe, suore e biberon alla Coca-Cola, è il piccolo Michan che ci racconta con ironia la storia di un Papà Bandito. Una favola moderna che prende vita in una città fredda il cui cuore pulsante è nei suoi angoli più bui, tra quartieri popolari, covi e fortezze bazzicati dai nostri scalcagnati eroi.

ESTRATTO

Me ne stavo seduto sullo sgabello alto, faccia alla finestra. Un cartello rosso mi pendeva sulle spalle. Mostrava il disegno di un asinello con sotto la scritta “SONO STATO CATTIVO”. Suor Domitilla mi aveva spedito in punizione perché avevo spezzato a metà il pastello rosa pelle di un bambino paffuto, Andrea Mastrobernardo, che aveva osato insinuare che non fossi capace di colorare le facce delle persone. Non che avesse tutti i torti, in realtà. Sotto a una casa sbilenca, a un sole radiante e a una striscia di cielo azzurro avevo disegnato me stesso e la mia famiglia con i volti fucsia. Anche il muso del nostro bastardino Bobby, fucsia. Ma non era colpa mia se il mio pastello rosa era un moncherino senza punta e quello rosa pelle non l'avevo mai avuto. Andrea Mastrobernardo, oltretutto, si era rifiutato di prestarmelo. Come minimo doveva esimersi da qualsiasi commento sulle mie doti pittoriche. Se l'era voluta, il ciccione. Ma la suora non aveva voluto sentire le mie ragioni. Quando poi le era scivolato l'occhio sulle facce fucsia aveva reagito come se avessi offeso le sue capacità didattiche. Così ero finito nell'angolo, alla gogna, ad annoiarmi a osservare il cortile vuoto mentre gli altri bambini finivano il disegno. Che ingiustizia. Nell'aula non volava una mosca. Suor Domitilla imponeva il più assoluto silenzio nell'ora del “lavoro”. Persino una sedia spostata valeva un'occhiataccia. Per parlare con un compagno per chiedergli in prestito qualcosa bisognava prima alzare la mano e chiedere il permesso. Il solo rumore di pastelli che grattavano la carta spediva suor Domitilla in una beatitudine che rasentava la sonnolenza. Le gettavo occhiate in tralice mentre le palpebre le si facevano pesanti. Che pena mi faceva. Non sapeva che il suo destino era segnato. Quando mio padre avesse saputo che cosa mi aveva fatto avrebbe lavato l'onta col sangue. Come minimo. Mio padre non faceva altro che dire che non si fidava di preti e suore, che erano la gentaglia che aveva rovinato l'Irlanda e che se il Führer mi avesse sfiorato, all'asilo, l'avrebbe fatta a pezzetti. Mio padre chiamava suor Domitilla “Führer” perché quando era ragazzino veniva al campo di calcetto parrocchiale a sequestrare il pallone alle 17 in punto, anche se era estate e c'era bel tempo e anche se erano in pareggio e stavano per tirare un calcio d'angolo. Una volta, poi, gli aveva tirato le orecchie per aver bestemmiato. Mio nonno si raccomandava con me dicendomi di non chiamare mai la suora Führer. Be', Führer o non Führer, sarebbe giunta la sua ora. Mi crogiolavo in fantasie in cui mio padre strappava il velo di suor Domitilla rivelando a tutti il suo cranio pelato (diceva che tutte le suore sono calve), poi afferrava l'astuccio di Andrea Mastrobernardo e frantumava sotto i piedi tutti i suoi pastelli dalla punta sempre perfetta e infine legava suora e ciccione sullo sgabello alto con due cartelli rossi sulle spalle: “SONO UN FÜHRER” e “SONO UN OBESO TIRCHIO FICCANASO E SPIA”. Mio padre ne sarebbe stato capace, ne ero certo. Non vedevo l'ora che mi venisse a prendere. Il tempo, lì fermo a guardare fuori dalla finestra, sembrava non passare mai. Avrei voluto chiedere alla suora quanto mancava al suono della campanella, ma non potevo rivolgerle la parola. Pensai intensamente a mio padre. “Vieni daddy, vieni a prendermi”. Mi concentrai parecchio, strinsi persino gli occhi e le chiappe per dare forza ai miei poteri telepatici. Magari avrebbe funzionato. Funzionò. In realtà, a quattro anni ero già abbastanza grandicello per sapere che quello che immaginavo di solito non si realizzava mai, per quanto lo desiderassi. Per questo rimasi sinceramente stupito quando, dalla finestra, vidi una bicicletta entrare a tutta velocità nel cortile dell'asilo. Il ciclista sterzò di colpo e irrigidì le ginocchia per bloccare i pedali. La bici ruotò su se stessa, disegnando un semicerchio sulla ghiaia con la ruota posteriore, poi si bloccò. Il tipo in sella scese come se qualcosa gli scottasse sotto il sedere. Spinse il manubrio lontano da sé con un gesto furibondo e lasciò cadere la bicicletta sulla ghiaia. Sussultai. Il tipo nascose gli occhi nell'incavo del gomito. Mosse alcuni incerti passi da un lato, barcollante. Poi riemerse dalla manica del giubbotto, si guardò intorno e si lanciò di corsa verso l'entrata dell'asilo. Non credevo ai miei occhi. Anche se la scena era durata meno di tre secondi lo avevo riconosciuto. Aveva il cappuccio della felpa calato sulla fronte e non portava i soliti occhiali con la montatura nera, ma non potevo confondere quel modo di frenare la sua bici a scatto fisso. E le All Star viola. E lo zainetto grigio sulle spalle con dentro fogli, matite e china. Era mio padre. Con una mossa di reni balzai giù dallo sgabello alto e iniziai a saltare di gioia con le braccia in alto, come ad anticipare l'abbraccio che da lì a poco mi avrebbe accolto. “Daddy! Daddy!” urlavo. Suor Domitilla si risvegliò bruscamente dal suo torpore. L'intera classe rimase a bocca aperta per la mia incredibile impudenza. La maestra si preparò a celebrare lo scandalo. Gonfiò il petto e strinse la bocca a culo di gallina, mille rughe andarono ad intarsiare sul suo viso la furia che montava. Non ebbe il tempo di strillarmi di fare silenzio e di tornare in punizione. La porta si spalancò di scatto, i vetri tremarono. Mio padre fece irruzione nella stanza. Forse neppure se fosse apparsa la Madonna con un seguito di putti strombazzanti i miei compagni quattrenni l'avrebbero guardata con altrettanta sconcertata ammirazione. Io no di certo. Mio padre era davanti a me, in tutto il suo splendore. O, meglio, in evidente difficoltà. Ma lì per lì non mi accorsi degli occhi gonfi e arrossati, delle lacrime che gli rigavano il volto e del suo affanno. Sapevo solo che il mio papà aveva risposto alla mia richiesta di aiuto telepatica e questo mi faceva impazzire dalla gioia. Gettai a terra il cartello con l'asino e mi precipitai ad abbracciarlo. “Michan!” gridò la suora. Non l'ascoltai. In presenza di mio padre qualsiasi altra autorità svaniva, persino quella del nonno. Ma fu lui a frenare il mio entusiasmo. Non mi permise di saltargli al collo, neppure di aggrapparmi alle sue gambe come facevo sempre. Mi mostrò il palmo della mano col braccio teso davanti a sé, ad intimarmi lo stop. “Non toccarmi, Michan” disse piano, lanciandomi lo sguardo del “zitto dopo ti spiego”. Uno sguardo che avevo imparato a decifrare da quando avevo iniziato a mettere in fila due parole. Di solito lo vedevo comparire quando mio nonno era nei paraggi. O in presenza di assistenti sociali ficcanaso o di commessi sospettosi. Ovviamente, anche suor Domitilla era una candidata ideale. Mi fermai e rimasi zitto. Ero un complice perfetto. “Jude”. Quel nome uscì dalla bocca della suora gelido come un ghiacciolo. Con uno sguardo il Führer incenerì qualsiasi pensiero fosse balenato nella testa dei miei piccoli compagni di commentare quell'imprevisto. Si alzò dalla sedia, puntò i pugni sulla cattedra e fissò mio padre con uno sguardo interrogativo, sprezzante e leggermente disgustato. “A che cosa dobbiamo l'onore?” disse. Per un secondo, mio padre sembrò tornare quel ragazzino a cui lei aveva impedito di tirare un calcio d'angolo. Ma giusto per un secondo. Jude si pulì il naso col polsino del giubbotto, tossì, poi replicò deciso. “Porto via mio figlio”. La sua voce risuonò da un oltretomba di mucose tappate e muco ribollente. Tossì, rantolò e riprese fiato sonoramente, a bocca spalancata, alzando gli occhi al cielo come a chiedere conto di quella maledizione. “E dove lo porti?” “Dal medico – berciò mio padre – deve fare una visita. E anche io” Suor Domitilla non parve impressionata. Si risedette. Le rughe della collera le sparirono dalla fronte, ma la smorfia di disgusto si fece più evidente. Chiaramente quella giustificazione le pareva l'unica plausibile per quella sgradita improvvisata. Ma non poteva certo darla vinta a un moccioso pestifero di quattro anni e a quel suo padre teppista col latte sulla bocca. Non così facilmente, non davanti alla sua classe. “Quando i bambini devono uscire prima, la direttrice deve esserne informata di mattino – iniziò – tienilo a mente per la prossima volta. Avrei fatto uscire Michan senza bisogno che tu salissi. Soprattutto ora che sei così influenzato. Jude, lo vedi che questa aula è piena di bambini?” Decine di occhietti ammiccarono a mio padre, solidali. Non era piacevole essere sgridati dalla suora. Neanche un papà così alto e così coraggioso avrebbe ribattuto. Ma lui, invece, lo fece. “Non è influenza, è allergia – disse, con un tono di voce che non sarebbe mai stato ammesso in quell'aula – non sono contagioso”. Le rughe tornarono sulla fronte di suor Domitilla. “Non è tempo di allergie e c'è l'influenza in giro – disse, seccata – comunque, Jude, sappi che oggi Michan si è comportato molto male. Michan, dì al tuo papà che cos'hai fatto”. Tentennai. Stava tirando troppo la corda. Conoscevo il temperamento di mio padre. Poteva finire male, molto male. Per lei. Accusarmi di fronte al migliore avvocato che potessi mai avere? Che pessima idea. Jude cedeva l'ultima parola in una discussione solo quando lo facevano desistere a schiaffoni. Se non fosse stato davvero un teppistello di periferia semianalfabeta, in un'aula di tribunale se la sarebbe cavata benissimo. Ma la suora fu fortunata. Lo aveva trovato quando le sue abilità dialettiche erano azzoppate da quella strana crisi. Era agitato, in collera, sofferente. E aveva fretta di andarsene. Jude si strofinò di nuovo gli occhi e il naso con la manica: “Dobbiamo andare”. “Avanti, Michan, diglielo”. Stavo per raccontare la storia del pastello rosa pelle ma mio padre non me ne diede il tempo. Mi prese per il grembiulino e mi tirò verso la porta: “Let's go!” “Ma papà, devo prendere la giacca!” Come al solito, dicevo e facevo cose più sensate di quante ne facesse lui. Jude emise un verso esasperato. Mi affrettai a prendere il mio cappottino dall'attaccapanni. Lui uscì e io lo seguii di corsa. “Si saluta! - ci urlò dietro suor Domitilla, battendo forte il palmo della mano sulla cattedra – Siete due maleducati!” “Io l'ammazzo, quella – rantolò mio padre – Mishi portami in bagno, sto malissimo”. Jude alzò le braccia in alto e si coprì gli occhi con la parte superiore delle maniche del giubbotto. Continuò a camminare per il corridoio, senza vederci nulla. Tossiva. Volevo prenderlo per mano per guidarlo, ma mi aveva detto di non toccarlo. Allora corsi avanti fino alla porta del bagno: “È qui!” dissi senza alzare troppo la voce. Qualcosa mi diceva che mi avrebbe lanciato ancora lo sguardo “ti spiego dopo”, se avesse potuto. Jude entrò barcollando in un bagno a misura di bambino dell'asilo. I water avevano tavolette rosa e azzurre e non gli arrivavano al ginocchio, sembravano fatti per le bambole. In un'altra occasione questo l'avrebbe fatto ridere. Ma in quel momento pensò solo ad inginocchiarsi davanti a un minuscolo lavello. Aprì il rubinetto a tentoni, in preda a conati di vomito. Si abbassò il cappuccio e mise il viso sotto il getto d'acqua corrente. “Oh, grazie. Grazie, grazie” diceva, tra un'imprecazione e l'altra. Io lo guardavo in silenzio. Ero un po' preoccupato per la storia del dottore. Lui ne aveva davvero un gran bisogno, ma io non volevo andarci. “Non mi farà una puntura, vero papà?” pigolai, quando mi sembrò stare un po' meglio. Lui cercò di mettermi a fuoco attraverso le palpebre gonfie. Tra tanto rosso, spuntò l'azzurro. “Che puntura?” “Il dottore” ricordai. E finalmente, sorrise. “Non andiamo da nessun dottore, Mishi Mishi” mi rassicurò. Si guardò nello specchio attraverso l'adesivo della Sirenetta. “Guarda come mi sono ridotto – sospirò – brucia da matti, Mishi. Vieni qui. No, no, non toccarmi. Fermo, faccio io”. Morivo dalla voglia di dargli un bacio perché stava male e perché mi aveva salvato da quell'arpia di suor Domitilla come un vero supereroe, ma non potevo. Mi baciò lui sui ricci. Appoggiò il viso bagnato sul mio capo e prese un respiro forte, tremante, di quelli scaccialacrime. Una goccia d'acqua gli scivolò dai capelli nel mio colletto. Lanciai un risolino e mi tappai subito la bocca con entrambe le mani. Jude fece lo stesso. Per un attimo sembrò dimenticare qualsiasi problema lo avesse portato lì. Ma non potevamo trastullarci troppo. Mio padre si strofinò le mani a lungo con il sapone liquido alla fragola, poi si tolse delicatamente i piercing dalle labbra e dalle sopracciglia e si lavò la faccia. Io gli porgevo un asciugamano con sopra ricamato uno spaventapasseri. “Controlla che non venga nessuno”. Guardai nel corridoio e gli feci ok con tutti e due i pollici alzati. Uno dei nostri segnali. Jude aprì la zip del giubbotto e da una tasca interna tirò fuori una sottile mazzetta di banconote verdi e arancioni. Le suddivise in quattro rotolini. Uno se lo infilò nella tasca interna del giubbotto, un altro in una scarpa. Gli altri due li mise nelle tasche del mio cappottino. “Adesso sei un bambino ricco – disse – con questi a Natale ti compro una bici da grande, con le marce. Anche prima di Natale, ok?” “La bici me la porta Babbo Natale – ricordai – tu mi compri un tempio di Kundul?” “Ok, vada per il tempio di Kundul”. Tirò fuori da una tasca gli occhiali con la montatura nera e li lavò sotto il getto dell'acqua corrente prima di rimetterseli sul naso. Gettò la busta di plastica in un minicesso e tirò l'acqua. Si ripulì il naso un'ultima volta nella salvietta con lo spaventapasseri. Poi, finalmente, lasciammo l'asilo. Camminavamo a ridosso dei condomini. Una leggera foschia copriva i colori con un velo lattiginoso. Jude portava la bici a mano, io gli stavo accanto tenendo la canna stretta in pugno. Sembrava un normalissimo studente che accompagna a casa il fratellino. In un altro momento mi avrebbe fatto salire sul sellino. Oppure, mi avrebbe proposto di giocare a ZombieNazi, il nostro gioco preferito quando andavamo a zonzo per la città (tutti i passanti pelati, o con i baffi, o con il bastone o con addosso qualcosa di rosso, le suore e i cani barboncini sono zombie nazisti, noi siamo ebrei sopravvissuti; quando vediamo comparire le suddette categorie dobbiamo gridare la parola d'ordine “Fritzkilla!” e scappare il più veloce possibile finché non li vediamo più; vince chi avvista per primo più Fritz, ma se scappando riusciamo ad ammazzarne uno sfiorandolo, guadagniamo dieci punti). Ma Jude non aveva voglia di giocare. Era ancora nervoso, andava di fretta e si guardava spesso intorno come se si aspettasse davvero un agguato improvviso di zombie nazisti. Ma c'era anche qualcos'altro. Lo percepivo dalle occhiate complici che mi lanciava. E dai sorrisi. Era eccitato. Quando arrivammo a un passaggio pedonale, mi guardò con l'espressione che avevo io quando dovevo dirgli che mi scappava la pipì non appena usciti di casa, dopo che lui mi aveva ripetuto cinque volte di farla prima. “Sai tenere un segreto?” disse. L'omino verde apparve sul semaforo. Jude si lanciò sulle strisce, persi la presa della canna della bici ma lo inseguii di corsa. “Certo daddy! Dimmelo!” Raggiungemmo il marciapiede. “Dimmelo daddy! Dimmelo! Che segreto?” Fece 'shhh' col dito sulle labbra. Si chinò per avvicinare il suo viso al mio. “È un segreto grosso, questo. Non è un segreto come gli altri – mi avvisò – se lo dirai a qualcuno ti esploderà il pisello. Se non vuoi che ti esploda il pisello non devi dirlo a nessuno. Neanche a Seanie, neanche al nonno”. Fece una pausa, mentre riflettevo sulle conseguenze di un'esplosione in mezzo alle gambe. “Soprattutto, non devi dirlo al nonno”. Feci sì con la testa. “Michan – disse con voce solenne, per quanto gli permettesse il naso tappato – mettiti una mano sul cuore. Non quella, l'altra. Non lì Mishi, il cuore è a sinistra. Dì 'giuro che non rivelerò a nessuno il segreto, dovessero tagliarmi il pisello' ” “Giuro che non rivelerò a nessuno il segreto, dovessero tagliarmi il pisello” ripetei. “E staccarmi le palle per darle in pasto ai corvi”. “E staccarmi le palle per darle in pasto ai corvi” dissi, cercando di visualizzare la scena. “Se rivelerò il segreto possano marcirmi le budella”. “Se rivelerò il segreto possano marcirmi le budella”. “Mi venga un prolasso all'ano”. “Mi venga un pro-lasso allano”. Questa non la compresi, fortunatamente. “E possa io essere chiamato infame nei secoli dei secoli, amen”. Questa era difficile. “E possa io... iffame...” Gli bastò. Mi portò nel suo covo.

NOTIZIE SULL'AUTORE

Maria Chiara Perri - Il suo lavoro è catturare storie e raccontarle sui giornali e sul web. E’ nata nel 1982 all’ombra della Pietra di Bismantova ed è scesa dall’Appennino reggiano per studiare a Parma, dove si è laureata in Scienze della comunicazione e in Giornalismo. Dopo il praticantato nella redazione di un quotidiano locale ha cominciato a lavorare per l’edizione online di Repubblica Parma, per la quale si occupa ancora oggi di cronaca e attualità. Ama le serie tv, Internet, il cinema, i grandi classici della letteratura e la narrativa per bambini e ragazzi. Quando è possibile prende un aereo per andare a scoprire posti lontani. “Papà era un bandito” è il suo primo romanzo.

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