Papà era un bandito è la storia di una famiglia atipica con precedenti criminali
raccontata dal punto di vista di Michan, un bambino di quattro anni accudito dal padre
diciannovenne. Senza moralismi e con un pizzico di ironia vengono trattate tematiche
delicate come quelle della devianza giovanile e degli effetti della reclusione in carcere
sui detenuti e sui loro famigliari. I De Vita, protagonisti del romanzo, commettono tanti
errori ma sono uniti da un forte legame di affetto e solidarietà reciproca in un contesto
economico e sociale difficile. Il libro propone una riflessione ai ragazzi che hanno
vissuto esperienze di devianza e può avvicinare i lettori alla conoscenza di esperienze,
come quelle del carcere e del disagio giovanile, vicine ma troppo spesso nascoste.
AUTORE: Maria Chiara Perri
EDITORE: Nativi Digitali Edizioni (5/2/2015)
GENERE: Narrativa
PREZZO: eBook 2,99 €
PAGINE:
TRAMA
Jude ha diciannove anni, origini irlandesi, cappuccio della felpa calato sulla fronte. Se
ne va in giro con la sua bici, All Star viola ai piedi e zaino in spalla. Lo accompagna
Michan, un bimbo color latte macchiato con una testa piena di riccioli. Sono papà e
figlio. La loro è una famiglia sull’orlo di una crisi di nervi, con un nonno irascibile che
nasconde un passato e uno zio metallaro alle prese con paturnie adolescenziali. Basta
una bravata di Jude per sconvolgerne i già precari equilibri.
Tra streghe, suore e biberon alla Coca-Cola, è il piccolo Michan che ci racconta con
ironia la storia di un Papà Bandito. Una favola moderna che prende vita in una città
fredda il cui cuore pulsante è nei suoi angoli più bui, tra quartieri popolari, covi e
fortezze bazzicati dai nostri scalcagnati eroi.
ESTRATTO
Me ne stavo seduto sullo sgabello alto, faccia alla finestra. Un cartello
rosso mi pendeva sulle spalle. Mostrava il disegno di un asinello con
sotto la scritta “SONO STATO CATTIVO”. Suor Domitilla mi aveva
spedito in punizione perché avevo spezzato a metà il pastello rosa pelle
di un bambino paffuto, Andrea Mastrobernardo, che aveva osato
insinuare che non fossi capace di colorare le facce delle persone. Non
che avesse tutti i torti, in realtà. Sotto a una casa sbilenca, a un sole
radiante e a una striscia di cielo azzurro avevo disegnato me stesso e la
mia famiglia con i volti fucsia. Anche il muso del nostro bastardino
Bobby, fucsia. Ma non era colpa mia se il mio pastello rosa era un
moncherino senza punta e quello rosa pelle non l'avevo mai avuto.
Andrea Mastrobernardo, oltretutto, si era rifiutato di prestarmelo.
Come minimo doveva esimersi da qualsiasi commento sulle mie doti
pittoriche. Se l'era voluta, il ciccione. Ma la suora non aveva voluto
sentire le mie ragioni. Quando poi le era scivolato l'occhio sulle facce
fucsia aveva reagito come se avessi offeso le sue capacità didattiche.
Così ero finito nell'angolo, alla gogna, ad annoiarmi a osservare il
cortile vuoto mentre gli altri bambini finivano il disegno. Che
ingiustizia.
Nell'aula non volava una mosca. Suor Domitilla imponeva il più
assoluto silenzio nell'ora del “lavoro”. Persino una sedia spostata valeva
un'occhiataccia. Per parlare con un compagno per chiedergli in prestito
qualcosa bisognava prima alzare la mano e chiedere il permesso. Il solo
rumore di pastelli che grattavano la carta spediva suor Domitilla in una
beatitudine che rasentava la sonnolenza. Le gettavo occhiate in tralice
mentre le palpebre le si facevano pesanti. Che pena mi faceva. Non
sapeva che il suo destino era segnato. Quando mio padre avesse saputo
che cosa mi aveva fatto avrebbe lavato l'onta col sangue. Come minimo.
Mio padre non faceva altro che dire che non si fidava di preti e suore,
che erano la gentaglia che aveva rovinato l'Irlanda e che se il Führer mi
avesse sfiorato, all'asilo, l'avrebbe fatta a pezzetti. Mio padre chiamava
suor Domitilla “Führer” perché quando era ragazzino veniva al campo
di calcetto parrocchiale a sequestrare il pallone alle 17 in punto, anche
se era estate e c'era bel tempo e anche se erano in pareggio e stavano per
tirare un calcio d'angolo. Una volta, poi, gli aveva tirato le orecchie per
aver bestemmiato. Mio nonno si raccomandava con me dicendomi di
non chiamare mai la suora Führer.
Be', Führer o non Führer, sarebbe giunta la sua ora. Mi crogiolavo in
fantasie in cui mio padre strappava il velo di suor Domitilla rivelando a
tutti il suo cranio pelato (diceva che tutte le suore sono calve), poi
afferrava l'astuccio di Andrea Mastrobernardo e frantumava sotto i
piedi tutti i suoi pastelli dalla punta sempre perfetta e infine legava
suora e ciccione sullo sgabello alto con due cartelli rossi sulle spalle:
“SONO UN FÜHRER” e “SONO UN OBESO TIRCHIO FICCANASO E
SPIA”. Mio padre ne sarebbe stato capace, ne ero certo.
Non vedevo l'ora che mi venisse a prendere. Il tempo, lì fermo a
guardare fuori dalla finestra, sembrava non passare mai. Avrei voluto
chiedere alla suora quanto mancava al suono della campanella, ma non
potevo rivolgerle la parola. Pensai intensamente a mio padre. “Vieni
daddy, vieni a prendermi”. Mi concentrai parecchio, strinsi persino gli
occhi e le chiappe per dare forza ai miei poteri telepatici. Magari
avrebbe funzionato.
Funzionò.
In realtà, a quattro anni ero già abbastanza grandicello per sapere che
quello che immaginavo di solito non si realizzava mai, per quanto lo
desiderassi. Per questo rimasi sinceramente stupito quando, dalla
finestra, vidi una bicicletta entrare a tutta velocità nel cortile dell'asilo. Il
ciclista sterzò di colpo e irrigidì le ginocchia per bloccare i pedali. La
bici ruotò su se stessa, disegnando un semicerchio sulla ghiaia con la
ruota posteriore, poi si bloccò. Il tipo in sella scese come se qualcosa gli
scottasse sotto il sedere. Spinse il manubrio lontano da sé con un gesto
furibondo e lasciò cadere la bicicletta sulla ghiaia. Sussultai. Il tipo
nascose gli occhi nell'incavo del gomito. Mosse alcuni incerti passi da
un lato, barcollante. Poi riemerse dalla manica del giubbotto, si guardò
intorno e si lanciò di corsa verso l'entrata dell'asilo.
Non credevo ai miei occhi. Anche se la scena era durata meno di tre
secondi lo avevo riconosciuto. Aveva il cappuccio della felpa calato
sulla fronte e non portava i soliti occhiali con la montatura nera, ma non
potevo confondere quel modo di frenare la sua bici a scatto fisso. E le
All Star viola. E lo zainetto grigio sulle spalle con dentro fogli, matite e
china. Era mio padre. Con una mossa di reni balzai giù dallo sgabello
alto e iniziai a saltare di gioia con le braccia in alto, come ad anticipare
l'abbraccio che da lì a poco mi avrebbe accolto. “Daddy! Daddy!” urlavo.
Suor Domitilla si risvegliò bruscamente dal suo torpore. L'intera classe
rimase a bocca aperta per la mia incredibile impudenza. La maestra si
preparò a celebrare lo scandalo. Gonfiò il petto e strinse la bocca a culo
di gallina, mille rughe andarono ad intarsiare sul suo viso la furia che
montava. Non ebbe il tempo di strillarmi di fare silenzio e di tornare in
punizione. La porta si spalancò di scatto, i vetri tremarono. Mio padre
fece irruzione nella stanza.
Forse neppure se fosse apparsa la Madonna con un seguito di putti
strombazzanti i miei compagni quattrenni l'avrebbero guardata con
altrettanta sconcertata ammirazione. Io no di certo.
Mio padre era davanti a me, in tutto il suo splendore. O, meglio, in
evidente difficoltà. Ma lì per lì non mi accorsi degli occhi gonfi e
arrossati, delle lacrime che gli rigavano il volto e del suo affanno.
Sapevo solo che il mio papà aveva risposto alla mia richiesta di aiuto
telepatica e questo mi faceva impazzire dalla gioia. Gettai a terra il
cartello con l'asino e mi precipitai ad abbracciarlo.
“Michan!” gridò la suora. Non l'ascoltai. In presenza di mio padre
qualsiasi altra autorità svaniva, persino quella del nonno. Ma fu lui a
frenare il mio entusiasmo. Non mi permise di saltargli al collo, neppure
di aggrapparmi alle sue gambe come facevo sempre. Mi mostrò il
palmo della mano col braccio teso davanti a sé, ad intimarmi lo stop.
“Non toccarmi, Michan” disse piano, lanciandomi lo sguardo del “zitto
dopo ti spiego”. Uno sguardo che avevo imparato a decifrare da
quando avevo iniziato a mettere in fila due parole. Di solito lo vedevo
comparire quando mio nonno era nei paraggi. O in presenza di
assistenti sociali ficcanaso o di commessi sospettosi. Ovviamente, anche
suor Domitilla era una candidata ideale. Mi fermai e rimasi zitto. Ero un
complice perfetto.
“Jude”.
Quel nome uscì dalla bocca della suora gelido come un ghiacciolo. Con
uno sguardo il Führer incenerì qualsiasi pensiero fosse balenato nella
testa dei miei piccoli compagni di commentare quell'imprevisto. Si alzò
dalla sedia, puntò i pugni sulla cattedra e fissò mio padre con uno
sguardo interrogativo, sprezzante e leggermente disgustato.
“A che cosa dobbiamo l'onore?” disse.
Per un secondo, mio padre sembrò tornare quel ragazzino a cui lei
aveva impedito di tirare un calcio d'angolo. Ma giusto per un secondo.
Jude si pulì il naso col polsino del giubbotto, tossì, poi replicò deciso.
“Porto via mio figlio”.
La sua voce risuonò da un oltretomba di mucose tappate e muco
ribollente. Tossì, rantolò e riprese fiato sonoramente, a bocca spalancata,
alzando gli occhi al cielo come a chiedere conto di quella maledizione.
“E dove lo porti?”
“Dal medico – berciò mio padre – deve fare una visita. E anche io”
Suor Domitilla non parve impressionata. Si risedette. Le rughe della
collera le sparirono dalla fronte, ma la smorfia di disgusto si fece più
evidente. Chiaramente quella giustificazione le pareva l'unica plausibile
per quella sgradita improvvisata. Ma non poteva certo darla vinta a un
moccioso pestifero di quattro anni e a quel suo padre teppista col latte
sulla bocca. Non così facilmente, non davanti alla sua classe.
“Quando i bambini devono uscire prima, la direttrice deve esserne
informata di mattino – iniziò – tienilo a mente per la prossima volta.
Avrei fatto uscire Michan senza bisogno che tu salissi. Soprattutto ora
che sei così influenzato. Jude, lo vedi che questa aula è piena di
bambini?”
Decine di occhietti ammiccarono a mio padre, solidali. Non era
piacevole essere sgridati dalla suora. Neanche un papà così alto e così
coraggioso avrebbe ribattuto. Ma lui, invece, lo fece.
“Non è influenza, è allergia – disse, con un tono di voce che non sarebbe
mai stato ammesso in quell'aula – non sono contagioso”.
Le rughe tornarono sulla fronte di suor Domitilla.
“Non è tempo di allergie e c'è l'influenza in giro – disse, seccata –
comunque, Jude, sappi che oggi Michan si è comportato molto male.
Michan, dì al tuo papà che cos'hai fatto”.
Tentennai. Stava tirando troppo la corda. Conoscevo il temperamento di
mio padre. Poteva finire male, molto male. Per lei. Accusarmi di fronte
al migliore avvocato che potessi mai avere? Che pessima idea. Jude
cedeva l'ultima parola in una discussione solo quando lo facevano
desistere a schiaffoni. Se non fosse stato davvero un teppistello di
periferia semianalfabeta, in un'aula di tribunale se la sarebbe cavata
benissimo. Ma la suora fu fortunata. Lo aveva trovato quando le sue
abilità dialettiche erano azzoppate da quella strana crisi. Era agitato, in
collera, sofferente. E aveva fretta di andarsene.
Jude si strofinò di nuovo gli occhi e il naso con la manica: “Dobbiamo
andare”.
“Avanti, Michan, diglielo”.
Stavo per raccontare la storia del pastello rosa pelle ma mio padre non
me ne diede il tempo. Mi prese per il grembiulino e mi tirò verso la
porta: “Let's go!”
“Ma papà, devo prendere la giacca!”
Come al solito, dicevo e facevo cose più sensate di quante ne facesse lui.
Jude emise un verso esasperato. Mi affrettai a prendere il mio
cappottino dall'attaccapanni. Lui uscì e io lo seguii di corsa.
“Si saluta! - ci urlò dietro suor Domitilla, battendo forte il palmo della
mano sulla cattedra – Siete due maleducati!”
“Io l'ammazzo, quella – rantolò mio padre – Mishi portami in bagno, sto
malissimo”.
Jude alzò le braccia in alto e si coprì gli occhi con la parte superiore
delle maniche del giubbotto. Continuò a camminare per il corridoio,
senza vederci nulla. Tossiva. Volevo prenderlo per mano per guidarlo,
ma mi aveva detto di non toccarlo. Allora corsi avanti fino alla porta del
bagno: “È qui!” dissi senza alzare troppo la voce. Qualcosa mi diceva
che mi avrebbe lanciato ancora lo sguardo “ti spiego dopo”, se avesse
potuto.
Jude entrò barcollando in un bagno a misura di bambino dell'asilo. I
water avevano tavolette rosa e azzurre e non gli arrivavano al
ginocchio, sembravano fatti per le bambole. In un'altra occasione questo
l'avrebbe fatto ridere. Ma in quel momento pensò solo ad inginocchiarsi
davanti a un minuscolo lavello. Aprì il rubinetto a tentoni, in preda a
conati di vomito. Si abbassò il cappuccio e mise il viso sotto il getto
d'acqua corrente.
“Oh, grazie. Grazie, grazie” diceva, tra un'imprecazione e l'altra. Io lo
guardavo in silenzio. Ero un po' preoccupato per la storia del dottore.
Lui ne aveva davvero un gran bisogno, ma io non volevo andarci.
“Non mi farà una puntura, vero papà?” pigolai, quando mi sembrò
stare un po' meglio.
Lui cercò di mettermi a fuoco attraverso le palpebre gonfie. Tra tanto
rosso, spuntò l'azzurro.
“Che puntura?”
“Il dottore” ricordai.
E finalmente, sorrise.
“Non andiamo da nessun dottore, Mishi Mishi” mi rassicurò. Si guardò
nello specchio attraverso l'adesivo della Sirenetta. “Guarda come mi
sono ridotto – sospirò – brucia da matti, Mishi. Vieni qui. No, no, non
toccarmi. Fermo, faccio io”. Morivo dalla voglia di dargli un bacio
perché stava male e perché mi aveva salvato da quell'arpia di suor
Domitilla come un vero supereroe, ma non potevo. Mi baciò lui sui
ricci. Appoggiò il viso bagnato sul mio capo e prese un respiro forte,
tremante, di quelli scaccialacrime. Una goccia d'acqua gli scivolò dai
capelli nel mio colletto. Lanciai un risolino e mi tappai subito la bocca
con entrambe le mani. Jude fece lo stesso. Per un attimo sembrò
dimenticare qualsiasi problema lo avesse portato lì.
Ma non potevamo trastullarci troppo. Mio padre si strofinò le mani a
lungo con il sapone liquido alla fragola, poi si tolse delicatamente i
piercing dalle labbra e dalle sopracciglia e si lavò la faccia. Io gli
porgevo un asciugamano con sopra ricamato uno spaventapasseri.
“Controlla che non venga nessuno”.
Guardai nel corridoio e gli feci ok con tutti e due i pollici alzati. Uno dei
nostri segnali. Jude aprì la zip del giubbotto e da una tasca interna tirò
fuori una sottile mazzetta di banconote verdi e arancioni. Le suddivise
in quattro rotolini. Uno se lo infilò nella tasca interna del giubbotto, un
altro in una scarpa. Gli altri due li mise nelle tasche del mio cappottino.
“Adesso sei un bambino ricco – disse – con questi a Natale ti compro
una bici da grande, con le marce. Anche prima di Natale, ok?”
“La bici me la porta Babbo Natale – ricordai – tu mi compri un tempio
di Kundul?”
“Ok, vada per il tempio di Kundul”.
Tirò fuori da una tasca gli occhiali con la montatura nera e li lavò sotto
il getto dell'acqua corrente prima di rimetterseli sul naso. Gettò la busta
di plastica in un minicesso e tirò l'acqua. Si ripulì il naso un'ultima volta
nella salvietta con lo spaventapasseri.
Poi, finalmente, lasciammo l'asilo.
Camminavamo a ridosso dei condomini. Una leggera foschia copriva i
colori con un velo lattiginoso. Jude portava la bici a mano, io gli stavo
accanto tenendo la canna stretta in pugno. Sembrava un normalissimo
studente che accompagna a casa il fratellino. In un altro momento mi
avrebbe fatto salire sul sellino. Oppure, mi avrebbe proposto di giocare
a ZombieNazi, il nostro gioco preferito quando andavamo a zonzo per
la città (tutti i passanti pelati, o con i baffi, o con il bastone o con
addosso qualcosa di rosso, le suore e i cani barboncini sono zombie
nazisti, noi siamo ebrei sopravvissuti; quando vediamo comparire le
suddette categorie dobbiamo gridare la parola d'ordine “Fritzkilla!” e
scappare il più veloce possibile finché non li vediamo più; vince chi
avvista per primo più Fritz, ma se scappando riusciamo ad
ammazzarne uno sfiorandolo, guadagniamo dieci punti).
Ma Jude non aveva voglia di giocare. Era ancora nervoso, andava di
fretta e si guardava spesso intorno come se si aspettasse davvero un
agguato improvviso di zombie nazisti. Ma c'era anche qualcos'altro. Lo
percepivo dalle occhiate complici che mi lanciava. E dai sorrisi. Era
eccitato. Quando arrivammo a un passaggio pedonale, mi guardò con
l'espressione che avevo io quando dovevo dirgli che mi scappava la pipì
non appena usciti di casa, dopo che lui mi aveva ripetuto cinque volte
di farla prima.
“Sai tenere un segreto?” disse.
L'omino verde apparve sul semaforo. Jude si lanciò sulle strisce, persi la
presa della canna della bici ma lo inseguii di corsa.
“Certo daddy! Dimmelo!”
Raggiungemmo il marciapiede.
“Dimmelo daddy! Dimmelo! Che segreto?”
Fece 'shhh' col dito sulle labbra. Si chinò per avvicinare il suo viso al
mio.
“È un segreto grosso, questo. Non è un segreto come gli altri – mi
avvisò – se lo dirai a qualcuno ti esploderà il pisello. Se non vuoi che ti
esploda il pisello non devi dirlo a nessuno. Neanche a Seanie, neanche
al nonno”.
Fece una pausa, mentre riflettevo sulle conseguenze di un'esplosione in
mezzo alle gambe.
“Soprattutto, non devi dirlo al nonno”.
Feci sì con la testa.
“Michan – disse con voce solenne, per quanto gli permettesse il naso
tappato – mettiti una mano sul cuore. Non quella, l'altra. Non lì Mishi,
il cuore è a sinistra. Dì 'giuro che non rivelerò a nessuno il segreto,
dovessero tagliarmi il pisello' ”
“Giuro che non rivelerò a nessuno il segreto, dovessero tagliarmi il
pisello” ripetei.
“E staccarmi le palle per darle in pasto ai corvi”.
“E staccarmi le palle per darle in pasto ai corvi” dissi, cercando di
visualizzare la scena.
“Se rivelerò il segreto possano marcirmi le budella”.
“Se rivelerò il segreto possano marcirmi le budella”.
“Mi venga un prolasso all'ano”.
“Mi venga un pro-lasso allano”. Questa non la compresi,
fortunatamente.
“E possa io essere chiamato infame nei secoli dei secoli, amen”.
Questa era difficile.
“E possa io... iffame...”
Gli bastò. Mi portò nel suo covo.
NOTIZIE SULL'AUTORE
Maria Chiara Perri - Il suo lavoro è catturare storie e raccontarle sui giornali e sul
web. E’ nata nel 1982 all’ombra della Pietra di Bismantova ed è scesa dall’Appennino
reggiano per studiare a Parma, dove si è laureata in Scienze della comunicazione e in
Giornalismo. Dopo il praticantato nella redazione di un quotidiano locale ha cominciato
a lavorare per l’edizione online di Repubblica Parma, per la quale si occupa ancora oggi
di cronaca e attualità. Ama le serie tv, Internet, il cinema, i grandi classici della
letteratura e la narrativa per bambini e ragazzi. Quando è possibile prende un aereo
per andare a scoprire posti lontani. “Papà era un bandito” è il suo primo romanzo.
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